Da Socrate a Freud per scoprire il rapporto tra finzione e verità. E pensare che in due parole già disse tutto Eduardo
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
Abbiamo conosciuto, recentemente, Sergio Blanco, lo scrittore franco-uruguaiano, grazie al Festival Vie, organizzato a Modena da ERT, Emilia Romagna Teatri, dove è stato rappresentato Il bramino di Dusseldorf, e al Festival LAC, diretto da Carmelo Rifici, dove è andato in scena Memento mori.
L’editore Cue Press ha pubblicato, non solo tre testi del suo Teatro: Tebas Land, L’ira di Narciso, Il bramino di Dusseldorf, ma anche un testo teorico, Autofinzione, in cui l’autore cerca di spiegare la sua poetica, ovvero il suo modo di intendere il lavoro di scrittura, attento a rappresentare la realtà in forma di finzione.
Blanco dichiara subito che il termine lo ha preso in prestito dallo scrittore francese Serge Doubrovsky (1928- 2017), che nel suo romanzo più noto, Fils (1977), scritto in forma autobiografica, racconta la sua vita, a suo giudizio «impossibile a conservare, ma possibile a inventare», come dire che l’autobiografia sia incompatibile con la verità, essendo in balia della finzione immaginativa, tanto da non assicurare un racconto autentico. Blanco, prima di esporre il proprio Decalogo, per giustificare la sua idea di Autofinzione, ne ripercorre le origini, partendo dal «conosci te stesso» di Socrate, per attraversare, successivamente, autori come San Paolo (Lettera ai Galati), Sant’Agostino (Le Confessioni), Santa Teresa (Emanazioni dell’anima), Montaigne (Saggi), Rousseau (Le Confessioni), Stendhal (Vita di Henry Brulard) e, ancora, Rimbaud, Nietzsche, Freud e le successive scoperte psicoanalitiche sulla conoscenza profonda del proprio Io. Non cita Pirandello, forse non lo ha mai letto o visto, perché si sarebbe accorto che, gran parte del suo teatro, è costruita sul rapporto verità-finzione.
A mio avviso, Blanco non inventa nulla riguardo il problema dell’identità, anche perché, gran parte della narrativa e del teatro ha avuto come oggetto l’arte di narrare o rappresentare se stessi. Inoltre, c’è da ricordare che, sulla scia dell’Autofinzione, si è imposta l’Autofiction che ha grande fortuna, soprattutto, nelle produzioni televisive. Spesso, ci si chiede quanto possa essere etico svelare i dettagli privati della propria vita, soprattutto se su di esse si costruiscono trasmissioni televisive che sembrano uscite da un letamaio, dato che, il vero e il falso, fanno spettacolo, anche se di pessimo gusto. C’è da dire che ciò non si verifica nelle opere d’arte, dove, spesso, verità e finzione sono inestricabili e dove la realtà può essere trasfigurata in una dimensione drammatica, ma anche favolistica, onirica, metafisica, pur mostrandosi fintamente reale.
Blanco sostiene che le sue Autofinzioni non intendono autocelebrarsi, considerandole un tentativo di capire se stessi per arrivare agli altri. Per un simile motivo, ha creato il Decalogo nel tentativo di definire l’Autofinzione, a cui si arriva, a suo avviso, attraverso un processo che può fondarsi su: la conversione, il tradimento, l’evocazione, la confessione, la moltiplicazione, la sospensione, l’elevazione, la degradazione, l’espiazione e la guarigione. Si tratta della parte più originale del breve trattato, in cui si cerca di spiegare come raccontare se stessi e, nello stesso tempo, come ‘farsi finzione’. Blanco, per dimostrare la sua teoria, porta esempi tratti dai suoi testi, da quelli citati a Kassandra, Ostia, Cartografia di una sparizione, nei quali il proprio vissuto si trasforma in materia grezza, spetterà all’Autofinzione la maniera di reinventarla, perché la tecnica della reinvenzione, tra esagerazione e degradazione, permette di tracciare un percorso che è anche di ‘guarigione’.
Nell’Arte delle commedia, Eduardo sosteneva «In teatro la suprema verità è sempre la suprema menzogna», ma Blanco non conosce neppure il grande autore napoletano, dato che non lo ha mai citato.